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ENNIO BÌSPURI, Totò attore. La più ampia e definitiva biografia artistica, Roma, Gremese, 2010.
Se è vero, e non può non esserlo, che l'opera di un autore è costituita dai suoi scritti, è altrettanto vero che l'opera di un attore è costituita dalle sue interpretazioni, teatrali e/o cinematografiche che siano. Spostando la considerazione al piano editoriale, la durata nel tempo di un saggio critico su un autore, ma anche di quello su un attore, è un decimo, a dir tanto, di quella dell'edizione critica di un'opera; bene ha fatto dunque Ennio Bìspuri a dedicare la parte più cospicua di questa sua "ampia e definitiva biografia artistica" di Totò edita da Gremese alla filmografia dell'attore napoletano, ai quasi cento film da lui interpretati.
In tale filmografia, frutto evidentemente di una lunga e attenta ricerca, i film sono elencati in ordine cronologico e lo schema espositivo è il medesimo per ciascuna pellicola: ai dati identificativi seguono la Sinossi, le Informazioni generali e analisi critica del film e La recitazione di Totò. Si inizia da Fermo con le mani, film diretto da Gero Zambuto nel 1937, e lungo la strada tracciata da titoli famosi quali, tra i numerosissimi altri, Totò cerca casa, 1949, Guardie e ladri, 1951, diretti da Steno e Mario Monicelli, Signori si nasce, 1960, diretto da Mario Mattoli, Totò, Peppino e la dolce vita, 1961, diretto da Sergio Corbucci, si arriva alla trilogia (Uccellacci e uccellini, 1966; La terra vista dalla luna, 1967; Che cosa sono le nuvole?, 1967) nella quale Totò fu diretto da Pier Paolo Pasolini. La trilogia rappresenta da una parte la conclusione di una carriera trentennale, dall'altra una novità, "una gemma preziosa rispetto alle altre stratificazioni con cui si compone il suo intero spettro interpretativo" (p. 22): grazie alla capacità di un regista come Pasolini, la comicità unita alla drammaticità, lo spirito satirico nonché la tendenza parodistica, vale a dire le caratteristiche che dall'inizio avevano costituito le componenti essenziali della figura e della recitazione dell'attore, vengono come isolate, per essere immediatamente trasfigurate e trasferite dall'ambito realistico nel quale si erano fino ad allora espresse ad un ambito surreale, fiabesco e metafisico.
Nelle analisi della recitazione di Totò relative ai singoli film, si ritrovano di volta in volta nel dettaglio e nel rapporto con il personaggio da interpretare, con la sua storia, con l'ambiente entro il quale si muove e infine con la vita che l'attore gli dà sullo schermo, il modo di essere e il carattere di quest'ultimo, nonché gli assi portanti della sua recitazione.
Bìspuri parla in generale di tutto ciò nel saggio critico introduttivo, L'attore Totò: una fenomenologia globale (pp. 11-45). Partito da una domanda sul perché della "riabilitazione postuma", della riscoperta, o presunta tale, dell'attore seguita al rigetto della critica, in particolare di quella militante, una volta individuata quella sorta di schizofrenia per la quale nella stessa persona convivevano, in armonica complementarità, sua altezza imperiale il principe Antonio de Curtis e la maschera di Totò, lo studioso affronta, riportando anche una serie di giudizi altrui a riguardo, il rapporto Totò Pulcinella, "problema affascinante e molto complesso che è stato discusso da molti critici e storici dello spettacolo" (p. 14). Se esiste il fare da Pulcinella dell'attore, come ebbe a dire Pasolini, "non si può dire che fosse un Pulcinella", sostenne Tino Buazzelli (p. 15); c'è piuttosto l'appartenenza comune alla tradizione comica, non solo quella napoletana ma quella latina plautina e preplautina, e pur nella specificità dei modi, alla tradizione italiana della commedia dell'arte.
Apprendiamo come la creazione di Totò "marionetta" sia stata un'operazione a tavolino e come dallo scarso successo ottenuto da questa figura di Charlot dotato di parola sia iniziato un processo di maturazione che gradualmente, per fasi che poi convivono e si alternano nell'arco dell'intera carriera, approda, come abbiamo detto, alla "maschera surreale" pasoliniana. La costante, "il nucleo dal quale s'irradia l'intera gamma dei suoi registri recitativi" (p. 23), è secondo Bìspuri il clown, figura nella quale convivono la comicità e la tragicità, l'aspetto buffo e quello malinconico. La mimica del volto e del corpo, accentuata e finanche esasperata, il linguaggio pienamente dominato, la capacità di dire la battuta spesso sbeffeggiante e dissacrante, si calano, contemporaneamente traendone alimento, nella realtà napoletana, quella quotidiana dell'uomo qualunque, facendo di Totò un "grande interprete dello spirito napoletano" (p. 31). Da qui, probabilmente il sentimento e la vicinanza del pubblico, la sintonia anche quando la critica guardava con sufficienza.
Bìspuri insiste giustamente sul linguaggio di Totò, dal momento che per lo studioso proprio il linguaggio costituisce "la chiave per comprendere la specificità e la grandezza della sua recitazione, il nucleo più profondo del suo essere attore, fino al punto che ogni tentativo di doppiaggio in altre lingue è risultato un fallimento" (p. 36). Qui viene sfatato il luogo comune che assegna il ruolo preponderante nell'arte dell'attore alla mimica e alla gestualità.
Queste gli appartenevano già quando Totò iniziò la carriera cinematografica, dopo avere per anni calcato le tavole del palcoscenico. Nel teatro si svolse infatti il suo apprendistato, lì si compì la sua formazione. Se quello con il cinema, che non gli piaceva, fu un incontro casuale, "ciò che lo attraeva veramente era il teatro. [Il cinema] mancava di quella vitalità e di quel rapporto diretto con il pubblico e perfino con l'odore di polvere che solo il teatro sapeva trasmettergli" (p. 73).
Il secondo saggio, La formazione teatrale di Totò (pp. 47-71), ripercorre, suddividendola per fasi, la carriera teatrale dell'attore napoletano. Tale carriera è, ci sembra, una sorta di parabola; essa inizia nel 1919, con le cosiddette "staccate", brevi spettacoli allestiti in provincia il sabato e la domenica, e con le "periodiche", spettacoli domestici che allietavano i pomeriggi domenicali della Napoli bene. È qui che, continuando la linea di Leopoldo Fregoli e di Gustavo De Marco e al contempo ispirandosi a Raffaele Viviani, il quale era, secondo lui, "riuscito a interpretare perfettamente l'animo napoletano, capace di ridere e piangere contemporaneamente, e a tradurre la comicità all'interno del quadro tragico dell'esistenza" (p. 48), Totò creava la sua prima maschera e trovava l'essenza della propria recitazione. Individuato sui cartelloni dal superlativo "comicissimo", passando attraverso parodie famose e forti, quali quella di Francesca Bertini e di Cristoforo Colombo, affrontò più di una tournée. Ormai, siamo agli anni 1925-1927, la recitazione era divenuta più sicura, il successo era arrivato e l'attore in persona creava le proprie macchiette: queste nascevano dell'osservazione della realtà, con la quale avevano un rapporto di specularità assoluta che egli chiamò "il complesso dei fratelli siamesi" (p. 53).
Negli anni successivi Totò, che aveva acquisito la lezione della commedia dell'arte con la capacità di intuire e improvvisare, divenne, secondo Bìspuri, "la massima espressione di questo stile recitativo che, senza mai esagerare, lasciava sempre aperta all'attore un'infinita possibilità di situazioni drammaturgiche e di situazioni nuove" (p. 54). Varcò da vincitore "La Porta d'oro", il Teatro Nuovo di Napoli del quale fu direttore artistico e capocomico, indi trionfò sui palcoscenici di tutta Italia proponendo le macchiette di sempre e nuove elaborazioni parodistiche e surreali; meritò l'apprezzamento di critici del livello di Umberto Barbaro e la guerra non ne fermò la carriera.
La sua scelta d'interprete andò alle grandi riviste e iniziò in quegli anni la fruttuosa collaborazione con Michele Galdieri. Fu dalle grandi riviste che cominciò la fase discendente della parabola? Sembrerebbe. Rimaneva in secondo piano il "personaggio che Totò aveva creato per il teatro [e che aveva portato nel cinema] - con il fracchino, la bombetta, i pantaloni a zompafossi e i calzini a righe" (p. 67), e impercettibilmente, un po' per volta, siamo agli anni 1946-1947, affiorava quel manierismo che avrebbe compromesso la sua recitazione; non solo, ma colui che aveva rappresentato una novità sulla scena, cominciò a sembrare provinciale e fuori tempo. Fu in un certo senso quasi travolto dalla grandiosità e dall'opulenza delle riviste che interpretava.
Bìspuri retrodata al 1949, anno in cui l'attore interpretò Bada che ti mangio, la fine della sua carriera teatrale, ma in realtà fu soltanto il 5 maggio 1957, sul palcoscenico del Politeama Garibaldi di Palermo che Totò, ormai cieco, diede il proprio addio al teatro, vestendo per l'ultima volta i panni di Otello. L'addio al cinema, abbiamo visto, venne soltanto nel 1967, anno della sua morte. Negli ultimi mesi della propria vita l'attore lavorò per la televisione; quel mezzo, il cui dilagare aveva certamente contribuito, insieme al cinema, a compromettere più di una carriera teatrale, anche quella dello stesso Totò, gli offrì una possibilità che, ci sembra, non solo non aggiunge niente alla grandezza del comico napoletano, che ben emerge dalla biografia di Bìspuri, ma che piuttosto lo avvolge in un'atmosfera crepuscolare e scolorita, dal momento che egli "fa, senza volerlo, la parodia e la caricatura di se stesso, una caricatura triste e quasi penosa, che poco spazio lascia all'autentica comicità" (p. 497).
Mirella Saulini