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MANLIO SANTANELLI, Racconti mancini, Napoli, Alfredo Guida Editore, 2007.
Quella di Manlio Santanelli è, come per il teatro, una scrittura fitta di deliranti paradossi e di metafore iperboliche, eppure solidamente immediata, una scrittura dunque dai confini aperti, dove è presente, da un lato, una deviazione, uno straniamento verso l’assurdo, dall’altro, un alto coefficiente di teatralità, evidente non tanto nella frequenza dei dialoghi, qui ridotti al minimo, ma in una fortissima percettività corporea, una corporeità imperfetta, che caratterizza quasi tutti i personaggi protagonisti dei racconti.
I quindici racconti mancini appaiono nella loro testura formale strutturalmente lineari, ma profondamente enigmatici, poiché si dividono tra i due poli del naturalismo della rappresentazione e della liricità dell’impossibile.
In realtà, i fatti rappresentati diventano, nella loro dimensione metaforica e simbolica, elementi di un gioco colto e sottile, come fossero dei fili che il narratore si diverte a intrecciare con un’originale e inconfondibile vena satirica, che dà vita infine a un tessuto narrativo grottesco, comico e drammatico al tempo stesso.
Si tratta di racconti scritti con un registro evidentemente umoristico, che espongono casi al limite del fantastico, chiusi da finali inattesi e grotteschi, con protagonista un’umanità sommersa, come sommersa è la psiche dei personaggi, illuminata dalla lente deformante dell’autore.
Tutti i personaggi ricordano quelli “fuori di chiave” di scoperta ascendenza pirandelliana, perché sono comunque imperfetti, caratterizzati da quello che si potrebbe definire come un bradisismo dell’anima, per usare una metafora della commedia d’esordio Uscita d’emergenza (insignito del prestigioso Premio Idi nel 1979). Come appunto in molti suoi testi teatrali, lo scarto tra forma e vita, sempre di derivazione pirandelliana, appare spostato sul terreno dell’iperbole e del paradosso surreale.
Ora, analizzando i testi della raccolta Racconti mancini, si possono individuare alcune precise isotopie: in primo luogo, protagonista dei racconti è il corpo. La percezione del corpo coincide, in effetti, con il “sentire” la sua stessa deformità. Questo senso della diversità si declina in più forme: può essere la menomazione della mano senza le tre dita di Irene, la compagna di banco di cui si innamora “l’imperfezionista”, protagonista e io narrante del racconto eponimo; la deformazione del corpo di Agostino, personaggio del racconto intitolato Le nuove frontiere di Agostino; o, ancora, quella del corpo contaminato dalle radiazioni di un altro personaggio, protagonista di Radio Years; infine, l’imperfezione della bambina nana che si incontra nel drammatico racconto L’angelo dell’Amen.
La percezione della deformità del corpo traduce, visivamente e dunque teatralmente, il senso della mancata integrazione nel mondo, che appare totalmente estraneo e ostile nelle sue manifestazioni, producendo nei protagonisti dei racconti quel senso di inanità e di ostilità che può spingere fino all’atto estremo del suicidio. Il corpo è posto, dunque, metaforicamente al centro di questa scrittura, scrittura che condivide per questo molte analogie con i temi della narrativa europea del secondo Novecento. Si pensi per esempio a Proust, dove il corpo funziona come attivatore della memoria nelle epifanie memoriali e, soprattutto, a Beckett, autore caro a Santanelli.
Un’altra fondamentale isotopia, che si può riconoscere facilmente come un percorso semantico privilegiato in questi racconti è poi il tema, connesso a quello del corpo, della sua metamorfosi. Com’è noto, il tòpos della metamorfosi è stato reso celebre da Kafka e sviluppa un antico tema risalente addirittura all’Asinus aureus di Apuleio: con la progressiva trasformazione di Gregor Samsa, protagonista del celebre racconto di Kafka del 1915, «l’enorme insetto immondo» diventa metafora dell’esclusione, che diviene segno tangibile, concreta realtà, proprio nel corpo deformato del protagonista. Questa metamorfosi la ritroviamo in Agostino, protagonista del racconto Le nuove frontiere di Agostino. Qui Santanelli descrive quelle che definisce le «riforme funzionali», grazie a cui Agostino riesce a bere con i gomiti, mentre consuma la cena in camera da letto, lontano anche dagli occhi della madre (p. 39).
La scena di questa metamorfosi dagli esiti tragico-grotteschi, come pure nel racconto Prego, maestro! in cui il corpo del protagonista si liquefa, si ripete poi anche nel racconto Una volta non basta. Qui il protagonista dall’età di otto anni perde gradatamente la funzionalità degli organi sensoriali, a partire dal naso, che diventa segno della provvisorietà di fondo del genere umano, nonché citazione implicita e parodica della novella Il naso di Gogol.
Ancora, un altro percorso testuale altrettanto importante, che ritroviamo in Gogol, Bulgakov e Pirandello coincide con l’animazione degli oggetti descritti nei racconti, costruiti sulla tangibilità delle immagini e sull’immediatezza visiva con una tecnica spiccatamente teatrale. Diventa quindi oggetto del racconto il corpo nelle sue specificazioni metonimiche: come il naso, anche l’unghia del pollice, nel racconto lungo Casablanca 180 che chiude la raccolta, diventa una “pars pro toto”, ovvero una metonimia descrittiva del personaggio, secondo un procedimento che implica un grado di deformazione del soggetto spinto fino al limite del surreale (a tal punto che l’unghia diventa il «ritratto spiccicato di Humprey Bogart», p. 157).
Ancora, un tema costante è quello della follia, anch’esso molto frequente nella letteratura del Novecento. Nei racconti si può isolare un vero e proprio campo semantico che delimita questo tòpos, individuabile nelle parole come «ansia, paranoia, noia, fastidio di esistere, stizza repressa, assillo, tafano mentale, ossessione», che si ripetono con altissime occorrenze, dando il senso, per la frequenza che occupano nel lessico, della valenza che il tema della malattia mentale assume nei racconti.
Infine, come ultimo punto, la spiccata teatralità dei racconti si può individuare come un carattere che distingue quasi tutti i racconti. Si veda, per esempio, il racconto Il venticinque prossimo venturo, che appare scritto come se fosse una lettera e caratterizzato dalla struttura di un monologo teatrale. Inoltre, tutti i personaggi agiscono in un interno che spesso, come nel teatro di Pinter, si configura come un interno asfittico, una stanza-prigione, in cui la famiglia diventa carnefice di un gioco al massacro paradossale e grottesco.
Ma a parte queste macro-categorie rintracciabili nei testi della raccolta Racconti mancini, numerose appaiono le possibilità di scavo attivo nell’analisi critica, come pure gli echi e i rimandi citazionali dei testi. Si pensi al protagonista del racconto Ogni cosa a suo tempo, l’ottavo dei (Racconti mancini), che ricorda molto il protagonista della novella Il cappotto di Gogol. L’autore qui descrive il suo povero funzionario impegnato in una scrupolosa, estenuante arte calligrafica, unica sua ragione di vita: lì ritroviamo le “gabbiuzze” delle linee esatte, qui, nel racconto di Santanelli, il personaggio appare impegnato nell’esecuzione di una sola nota dello spartito e questo per un’intera vita. Un «omino senza importanza, un’anima inespressa, incompiuta» così Clemente Rebora descrive questa strana presenza nel saggio introduttivo su Gogol (del 1920). Lo stesso si può dire per in Ogni cosa a suo tempo, dove però il lettore è invitato a guardare oltre le apparenti somatizzazioni della paura del fare, oltre – scrive Santanelli – la «portanza di quel punto di dedizione e coerenza assoluta che gli – permette – di superare gli abissi della vita intermedia, conducendolo con un solo fine dalle rive dell’infanzia a quelle della senilità!» (p. 70). Grazie alla molla dell’ironia l’Autore riesce a rivelare l’essenza di quel personaggio, a portare alla luce la dimensione del profondo, nascosta da un’apparente pratica insignificante.
Ancora, numerosi rimandi citazionali alla letteratura europea e italiana si possono rintracciare nel racconto intitolato Della paranoia, in cui appare dominante il tema del doppio così prolifico nelle novelle e nel teatro di Pirandello, o nel racconto Un contributo speciale, strutturalmente costruito come uno speech per un convegno, racconto in cui si parla della metamorfosi, quasi di ascendenza ovidiana, di una bambina in gabbiano.
Senz’altro, in questi testi rivive la visionarietà del pittore fiammingo Bosch, autore di celebri allegorie satirico-morali, riscoperto e rivalutato in anni recenti alla luce delle teorie psicanalitiche insieme con pittori surrealisti. Santanelli ama di questo pittore il senso ironico, come il realismo grottesco divertente, folle e inusuale delle sue fantastiche immagini. Si pensi al trittico fiammingo intitolato Giardino delle delizie conservato al Museo del Prado, dove è presente nel pannello centrale proprio una scena di uomini e uccelli, che ricorda la metamorfosi della bambina in gabbiano, protagonista, come si è detto, di quest’ultimo racconto.
Racconti mancini è una raccolta in cui l’autore vuole “vedere” fino in fondo: vi domina lo sguardo profondo di chi è abituato a usare l’occhio sinistro, mancino appunto, che – come scrive Manganelli nel saggio La letteratura come menzogna del 1967 – appartiene alla categoria del fantastico: la letteratura della mano sinistra, dell’apostasia, dell’eresia.
Carmela Lucia