unisa ITA  unisa ENG


La critica - Le interviste

Intervista a Dario Fo

a cura di Isabella Selmin

Video-intervista rilasciata da Dario Fo in occasione della Giornata di studio dal titolo Raffaele Viviani: teatro, poesia e musica, che si è svolta lunedì 29 gennaio 2001, presso l'Istituto Universitario Suor Orsola Benincasa di Napoli.

 

Può offrirci un suo contributo su questo autore-attore?

Ho conosciuto Viviani attraverso le rappresentazioni del suo teatro e soprattutto attraverso le messinscene del maestro Roberto De Simone. Da queste messinscene eccezionali curate da De Simone veniva fuori questa forza straordinaria ed innovativa del teatro di Viviani.
Alcune opere sono pensate come un film con personaggi che si incontrano, con scene che apparentemente non hanno nessun rapporto l'una con l'altra, poi, a un certo punto viene fuori un personaggio conduttore che, poi, scompare per dare spazio ad un altro.
Insomma, si tratta di una visione scenica decisamente diversa, a volte opposta alla struttura moderna. È un'esplosione, anche nel teatro napoletano, che Viviani ha derivato sicuramente dal macchiettismo, ha inventato la cosiddetta "rivista", ha capovolto i canoni normali della commedia, ha usato i canoni della tragedia per fare la commedia, si è servito delle chiavi del teatro comico per realizzare spettacoli tragici.
C'è sempre una chiave di tragicità, anche nei momenti più grotteschi del teatro di Viviani. Questo è un aspetto che mi ha sempre colpito. Raffaele Viviani è un grande uomo di teatro che non viene sufficientemente studiato e rappresentato. Viviani è uno di quegli autori che bisogna vederlo in scena per poterlo capire.
Io, ad esempio, ho letto delle commedie, però è solo quando ho assistito alla rappresentazione di Piedigrotta che ho capito il significato, a parte naturalmente la profondità, l'allusione alle tradizioni popolari, la presenza dei miti greci, ma è lo spessore delle commedie vivianee che non sono soltanto quello che appaiono, bensì sono la proiezione dei valori di una tradizione, di un popolo dove il dialetto è stupendo, è vivo è comprensibile.
Si pensi che ad un certo punto della sua produzione Viviani, come Eduardo, fu costretto a "truccare" il suo linguaggio, ad italianizzarlo perché il Fascismo aveva imposto che non si dovesse più parlare il dialetto. Il dialetto era una cosa che faceva vergogna alla nostra razza, alla nostra nazione; questa è un'idea capitalistica, ottusa e piccolo-borghese pensare che le grandi nazioni avevano addirittura scatenato delle guerre per cancellare l'esistenza di lingue diverse. Un esempio, in tale senso, è rappresentato dalla Francia che presentava cinque o sei lingue completamente diverse, importanti come struttura e che il potere del re è riuscito ad eliminare. Il provenzale, ormai, è una lingua morta. Tutta la lingua "doc" in generale non esiste. Il Fascismo voleva realizzare questa operazione anche in Italia per i dialetti.
Il Fascismo non è riuscito nel suo intento perché in Italia i dialetti fanno parte della cultura piccolo-borghese e dei nobili, inoltre, è anche vero che la tradizione dei dialetti è sprofondata nella cultura dei secoli. Però questa scelta ottusa e senza senso della cultura ha privato moltissimi autori di comporre opere in dialetto; proprio perché quell'imposizione drastica cancellò il valore del dialetto.

Cosa pensa che potrà capitare in futuro al teatro dialettale?

Quando mi ritrovo con un attore che ha difficoltà a realizzare un personaggio, che non riesce ad entrare nel ruolo, allora io gli chiedo: che dialetto parli? Qual è il tuo dialetto d'origine? Prova a recitare questa parte nel tuo dialetto. Ed ecco che avviene il miracolo! Subito viene fuori il reale, il peso, la misura, il colore, l'italiano, oggi in modo particolare, è una lingua costruita, cioè costruita dall'accademia, dalla scuola, dalla televisione. Il dialetto, invece, è rimasto pulito nella sua struttura, nella sua forma grammaticale, nell'impianto, nella vocalità, i ritmi ed i tempi non sono diventati letteratura.
Il dialetto, quindi, ha questo grande vantaggio, riesce ad aiutare l'attore quando recita.
Anch'io a volte quando non riesco ad esprimere un concetto lo scrivo in forma dialettale anche quando voglio arrivare all'italiano, perché certe forme della lingua italiana sono meccaniche e prive di un fondamento di respiro e di colore reale legato all'emozione diretta, primordiale. Pertanto, riprendere questa prima forma è importante. Per stabilire il valore del dialetto bisogna ricercare proprio il significato che ha il dialetto per costruire una lingua e per sorreggerla.
La lingua italiana è ricchissima, composta da forme idiomatiche ricchissime, non riscontrabili in un'altra lingua.
Ad esempio, alcuni traduttori trovano difficoltà a tradurre testi scritti in lingua italiana in altre lingue (francese, inglese, tedesco) perché alcune espressioni sono intraducibili, sono forme idiomatiche che non esistono in altre lingue. È questa la nostra fortuna.
Abbiamo subito delle invasioni spaventose, abbiamo avuto come ospiti non desiderati tutti gli abitanti del Mediterraneo e dell'Europa, non certo come turisti, ma che hanno massacrato e rapinato, però hanno lasciato le loro forme idiomatiche che hanno arricchito i nostri dialetti. Noi li abbiamo rapinati della voce, delle loro espressioni. Tutto ciò ha arricchito enormemente la lingua italiana e noi dobbiamo imparare il dialetto perché è la grande riserva della lingua stessa.
In un momento in cui si tende a graffiare, a rendere secco, asciutto e stemperato il nostro linguaggio, riuscire a comunicare attraverso delle forme che provengono soprattutto dall'inglese, dal francese, è importante, perché questo arricchisce, però allo stesso tempo non devono sostituire interamente il nostro linguaggio. Ogni tanto è importante avere la possibilità di ristudiare, di andare indietro e ritrovare le origini della nostra lingua, tutto ciò è fondamentale per arricchirci. Per tale scopo il teatro può essere anche un mezzo.

Alla luce dei lavori di Viviani, secondo lei, l'oralità, può restare ancora il nucleo, il centro del lavoro teatrale?

Il teatro di Raffaele Viviani credo che sia il massimo esempio. Viviani è una figura incredibile, fu autodidatta in tutto, eppure aveva una cultura superiore, ha avuto la fortuna di trovarsi in Europa, di trovarsi legato all'Espressionismo tedesco, fu anche nei paesi dell'Est; quindi ha avuto la possibilità di acquisire forme, modelli, strutture e, soprattutto, movimenti, si pensi al suo contatto in Germania con il movimento dell'Espressionismo.
È veramente incredibile il contatto tra un autore-attore napoletano e l'Espressionismo.
Viviani era una piovra, nel suo significato positivo, era uno che prendeva, masticava, riproponeva e sempre in modo fresco non scimmiottando, masticava e riproponeva cose vive ed usava come mezzo di comunicazione, il mezzo più popolare: il dialetto. Avrebbe potuto anche usare l'italiano dal momento che aveva imparato a parlare ed a scrivere bene in italiano, infatti alcuni commenti (che sono dei piccoli saggi) che Viviani ha scritto sulle sue opere sono scritti in un italiano splendido.

Qual è il ricordo che conserva di Napoli?

La prima volta che sono venuto a Napoli è stato per recitare il Poer Nano che è un po' il primordio di un modo di recitare che, poi, è andato avanti con Mistero buffo, parlavo il lombardesco volutamente, proprio perché arricchiva il linguaggio, lo faceva precipitare, lo sgangherava e mi capitò di recitare al Teatro Diana, quando io iniziai a parlare con delle forme dialettali del Nord rimasero perplessi, poi, pian piano mi stettero ad ascoltare.
I napoletani hanno questa caratteristica, mi ricordo quando ho recitato Mistero buffo oppure quando ho interpretato Ruzante che tornava dalla guerra che è difficilissimo al punto che neanche in Lombardia si riesce a capire, io l'avevo tradotta in una forma mediata, con forme lombarde ed anche napoletane, per cui alla fine il pubblico riusciva a capire. Ma il livello del napoletano di acquisire onomatopeicamente attraverso il gesto ed il suono è veramente straordinario, è gente che comunica da sempre più con il corpo che con le parole. Alla base c'è sempre il corpo, per cui quando uno sa comunicare con il corpo ti capiscono tutti.
Studiate Viviani, perché è bello! È un lombardo che ve lo dice.
Viviani è un grande autore insieme a Ruzante. Viviani è grande per l'invenzione straordinaria che ha architettato, è un fuoriclasse, è fuori, è uno che rinnova e ristruttura la lingua napoletana ed anche il teatro napoletano. È fuori dalle convenzioni, è per questo che riesce a darci freschezza ed originalità.