Nel 1980 la messa in scena di Uscita di emergenza ha segnato l'inizio di una nuova era per il teatro napoletano definita dai critici "Nuova Drammaturgia napoletana". Che rapporto ha con questo movimento?
È un rapporto di consonanza e di dissonanza allo stesso tempo. La definizione "Nuova Drammaturgia napoletana" mi sta bene finché rappresenta, cronologicamente, il passaggio dagli Anni Settanta agli ultimi anni. Se, invece, ci si vuole riferire alla qualità, al contenuto delle commedie, bisogna dire che non c'è continuità con il Teatro italiano, semmai c'è continuità con il Teatro europeo. Sia io che i miei colleghi drammaturghi, abbiamo sempre aperto il nostro teatro ad una dimensione europea, avendo come punti di riferimento Genet, Proust, Pinter. È una drammaturgia che, in alcune commedie, comincia, apparentemente, in maniera rassicurante, ma poi, improvvisamente, volge al paradosso. In altre commedie questo scatto verso il surreale avviene più lentamente, la conversione è più lenta e regolare. Io sono del parere che le regole di una commedia sono nella commedia stessa, non nell'autore: ogni opera ha la sua regola interna.
Nelle sue commedie si parte da una situazione rassicurante per poi prendere la prima strada possibile verso la follia: da che cosa nasce questa predilezione per gli aspetti paradossali della realtà?
Preferisco adoperare il paradosso come chiave di lettura della realtà, perché credo sia il modo migliore per avvicinarglisi, essendo la realtà fortemente paradossale. Chi la rappresenta in termini documentaristici fa soltanto della cronaca, ma non giunge mai al nodo fondamentale delle cose. Alla televisione si vedono spesso trasmissioni che parlano della condizione di disagio in Bosnia, come in altri Paesi del mondo, a causa delle guerre, ma io credo che la vera Bosnia non sia quella di cinque persone che gridano da un palcoscenico. È più Bosnia il dopoguerra o la rivoluzione che si sente nelle parole del giacobino nel Baciamano, c'è più disperazione e realtà che non parlare dello stupro etnico. Io penso che le guerre abbiano un denominatore comune, bisogna trovare il centro della questione e sviluppare quello, senza pretendere di descrivere tutta la guerra in due ore.
Nel corso di un'intervista lei definì l'esistenza umana e la vita in generale "una serie di disgrazie con qualche sciagura". Perché una tale interpretazione?
Il mio è un pessimismo che cerca di esorcizzare la paura esistenziale che appartiene a tutti noi. Penso che a scuola bisognerebbe educare i ragazzi a fronteggiare le difficoltà a cui andranno incontro nel corso della loro vita. Uno dei traumi maggiori per un giovane è proprio il passaggio dalla scuola alla società, perché nella scuola esiste un rapporto personale con i docenti e si ha modo e tempo per esprimersi, ma quando si è fuori si diventa un numero, bisogna costruirsi un'identità. Per questo la vita è diversa dalla natura. Della natura si dice "non facit saltus" invece la vita interiore li fa i salti. Forse le scienze psicologiche nascono proprio dall'esigenza di ricostruire un'unità, un filo conduttore laddove, invece, ci sono delle cose che sono irriconducibili a un'origine, episodi traumaticamente precipitati nella nostra esistenza, che non sono assolutamente in rapporto con gli elementi della nostra personalità. Se sappiamo utilizzare queste esperienze nel modo migliore, esse ci fanno compiere dei grandi salti e ci fanno maturare. Io non credo alla teoria che tutte le esperienze fanno bene. Le buone esperienze fanno meglio.
Tutti i suoi personaggi cercano disperatamente un'uscita di emergenza per liberarsi dal malessere e dalla follia che attanaglia la loro vita...
Nel Novecento in tutta la letteratura teatrale a cominciare da Pirandello si avverte questo senso di rifiuto che impedisce all'individuo di espandersi, per cui il tentativo e lo sforzo dei personaggi è quello di rompere la catena per esprimere le proprie libertà. Nella "stanza della tortura" si stabiliscono dei confronti con i quali ognuno esprime le proprie ragioni soggettive, tutte valide, tutte potenzialmente vincenti, ma, alla fine, tutte perdenti. Questo è in fondo il prototipo del Teatro moderno.
Sulla scena ritroviamo spesso la presenza di una doppia realtà: i protagonisti delle commedie nascondono o travestono aspetti della loro vita e del loro passato ricorrendo a racconti fantastici che impediscono al lettore di riconoscere il confine tra realtà e fantasia.
Il fantastico dei miei personaggi nasce quasi sempre dalla necessità di sfuggire a una realtà che non è riconosciuta. Essi non possono far altro che inventarsi una vita particolare oppure cercare di sviare i sospetti, proiettandosi in un mondo immaginario. In Regina Madre la protagonista femminile, seguendo le proprie illusioni, ricostruisce la figura del marito, defunto, che si trasforma in un'immagine ideale e il figlio Alfredo, esasperato dalla madre che insiste per conoscere i motivi del suo fallimento matrimoniale, racconta una storia incredibile in cui confessa di aver addirittura mangiato la moglie. Io credo che tutti noi difficilmente ci mostriamo per ciò che siamo in realtà; spesso, senza neppure avvertirlo, appena varchiamo la soglia di casa, adottiamo una veste che abbiamo convenuto di essere la più adatta. Neppure noi conosciamo la nostra verità. Io nel teatro stabilisco dei conflitti e questi conflitti sono delle sfide per arrivare alla verità. In questo modo il Teatro diventa un processo.
I racconti fantastici diventano addirittura delle vere e proprie favole in alcune commedie.
La favola che la Janara racconta al giacobino nel Baciamano, ad esempio, è nata dopo aver letto il Pentamerone di Basile. Nella scrittura ho adoperato uno stile che precede quello della commedia: è un napoletano più antico di quello che parla normalmente la Janara, è più arcaico, perché le favole affondano nella memoria più lontana. Noi siamo fatti anche di ricordi e ricordare una parte di noi è un modo per riconoscerci, per riappropriarci della nostra identità. Quando vacilla la propria conoscenza di sé, la cura più immediata è quella di ritornare indietro e capire chi siamo stati e per quale motivo non ci riconosciamo più in ciò che siamo stati.
Uno dei segni distintivi dello stile di Manlio Santanelli consiste nel non concludere mai del tutto l'azione, lasciando lo spettatore nell'incertezza sull'esito del dramma.
La commedia L'Aberrazione delle stelle fisse si conclude con un ipotesi: Antonino accende il faro della motocicletta e innesca il paradosso, perché questa è una cosa che può accadere per strada e non tra due fratelli al settimo piano di un edificio. Se pensiamo, però, a ciò che vediamo in televisione ci rendiamo conto che questi episodi non sono poi così lontani dalla verità e che la realtà ha degli effetti talmente strani e lontani dalla normalità che possono rivelare improvvisamente una follia nascosta per molti anni. Il paradosso riesce ad accostare la sventura alla verità che inevitabilmente ha una fuga verso l'irrazionale. Nella mia scrittura sono presenti dei nodi che metto in scena, ma che non sempre sciolgo lasciandone allo spettatore il compito: ecco i finali aperti. Tutto ciò mi rimanda ad una conferenza di Pasolini, il quale sosteneva che la letteratura si divide in due parti: consolatoria e problematica. Mentre molti autori trattano questioni che chiudono alla fine del secondo atto mandando a casa il pubblico appagato e con una soluzione in tasca, io apro solo problemi che non so chiudere. Il finale aperto è inquietante, perché rappresenta un vuoto che ognuno riempie, secondo la propria interiorità ed esperienza di vita.
Secondo lei che cosa realmente è in grado di appassionare e di scuotere l'interesse della gente?
Il teatro si fa con la marginalità e con la singolarità delle situazioni narrate. La gente si identifica con ciò che vede sulla scena, con il personaggio periferico e quella che noi chiamiamo normalità. Si identifica con un personaggio emarginato e marginale.
Questa marginalità, però, viene resa sempre in maniera esilarante e infatti, nelle sue commedie, pur non partendo dalla disperazione, tuttavia, ci si arriva attraverso gradini tragicomici. In che modo la comicità nasce dal tragico?
Ho di mira il malessere, ma non riesco a separarlo da una dimensione ironica, paradossale. È una maniera per comprendere il tragico e portarlo alla comprensione degli altri. Il tragico fine a sé stesso ha smesso di stupirci e di impressionarci, ci siamo, purtroppo, assuefatti ad una realtà crudele. Ma con l'ironia e il paradosso ci sorprendiamo a sorridere e improvvisamente ci accorgiamo che stiamo sorridendo della tragedia. In questo modo il malessere si combina in maniera tragicomica, ma la mia è una comicità ambientata su una zattera, in balia delle onde.
Nel teatro di Manlio Santanelli troviamo una forte presenza femminile di cui viene resa un'immagine di estrema possessività e crudeltà. Come spiega questa scelta drammaturgica?
La figura femminile è il centro di quasi tutte le commedie, tranne in Disturbi di memoria in cui la donna è, però, molto presente nei discorsi affrontati dai protagonisti e in Uscita di emergenza dove addirittura più che di solitudine si parla di assenza della figura femminile. La donna è così forte nelle mie commedie che è presente anche quando è assente fino a metterla in scena in Facchini nelle vesti di "angelo della morte" che gira il mondo, istigando la gente al suicidio. Ultimamente ho scritto un testo: Il chiodo fisso che andrà in scena tra breve in cui la figura materna dopo un inizio più o meno rassicurante, se pur nella sua estrema possessività, slitta sempre di più verso la follia e viene dipinta in termini paradossali. Credo che questa visione derivi dalla mia situazione familiare: la personalità forte di mia madre mi ha segnato molto, tanto che quasi tutte le mie commedie sono concepite, se non come tentativo di rivalsa nei confronti della madre, in un'ottica abbastanza spietata della figura materna come artefice del destino del bambino e dell'uomo futuro.
Al contrario la figura maschile è estremamente fragile, come se fosse incapace di opporsi alla dominazione femminile, ma allo stesso tempo ne fosse sadicamente dipendente.
La figura maschile è quasi una vittima sacrificale della donna. Questo non vuol dire che io nella vita mi senta vittima di qualcosa, anche se il mio carattere mi porta molto di più a vittimizzarmi che non a "vittimare". Nelle situazioni reagisco, più spesso, addossandomi la colpa che scaricandola su altri. Nelle mie commedie tutti i personaggi si sentono colpevoli di qualcosa, anche di qualcosa che non hanno mai commesso, ma solo pensato. Ritornando a quanto dice la psicanalisi: per sentirci in colpa non è importante che un fatto sia accaduto basta che sia pensato. Ci si può sentire in colpa per il fatto di aver pensato di uccidere la propria sorella, ad esempio, basta il pensiero per renderci oggetto di sensi di colpa.
Anche la figura paterna è spesso misteriosamente assente dalla scena: vittima della giustizia come in Bellavita Carolina, fantasma dei ricordi in Regina Madre o ancora ridotto a macchina riproduttrice in La fabbrica delle creature.
Il padre è una figura che aleggia, latita. Questa penso che sia una caratteristica prevalentemente meridionale e diventa di conseguenza l'aspetto meno europeo del mio teatro perché a Napoli il padre è quello che esce di mattina e torna la sera per lavorare. Si ha un rapporto più profondo con la propria madre. Il padre diventa, quindi, una sorta di figura mitica, un puro spirito.
Tutto ruota intorno ad una sessualità oscura, nevrotica e simbolica.
Il rapporto con l'amore è sempre un rapporto complesso: questa interpretazione può derivare da un'educazione regressiva di cui la mia generazione ha subito i disagi, ma, in linea di massima, penso che sia anche il momento di maggior sincerità. Questa sincerità è accoppiata a una sensazione di disagio, come se fossimo sottoposti ad un giudizio, per cui giunge un'incertezza a disturbare quello che dovrebbe essere il corso naturale di una situazione. I miei personaggi sono tutti vittima di una cattiva interpretazione dell'amore, sono un po' come Don Giovanni che pur passando da una donna all'altra, è colui che conosce meno l'amore, perché ne ha una concezione quantitativa e non qualitativa e che lo induce a cercare continue prove.
In che modo la lettura dei classici europei da Conrad a Ionesco a Beckett hanno influito sulla sua formazione e successivamente sul suo stile?
Io divido gli interessi in un'età in cui bisogna fare i conti con il passato e allora mi sono creato due mondi tra i quali oscillo e che si percepiscono chiaramente nelle mie commedie: l'Europa di Kafka, Conrad, Musil, Proust e il mondo sudamericano di Borges, Marquez, autori di lingua latino americana. Sono presenti allora due differenti modi di esprimersi: un mondo mitteleuropeo che scava dentro di sé in un processo di continua autoanalisi e psicodramma e un mondo che proietta nella realtà la propria fantasia, attribuendo alla natura i propri disagi e le proprie sofferenze come in Cento anni di solitudine di Gabriel Garcìa Màrquez.
Tutte queste sollecitazioni come vengono rese nella sua scrittura?
Io metto da parte e tesorizzo tutte le esperienze e gli strumenti con cui sono entrato in contatto. Leggo un libro sperando che mi faccia compiere un passo in avanti nella conoscenza di me stesso e del mondo che mi circonda. Se ho scritto certe cose, le ho scritte, non solo per un DNA che mi conduceva al teatro, ma anche perché sentivo l'esigenza di liberarmi da tutto ciò che avevo incamerato.
Lei esplora le relazioni complesse attraverso il linguaggio. Che rapporto c'è tra il dialetto napoletano costruito come lingua letteraria e l'italiano?
Tra il napoletano e la lingua italiana c'è un rapporto misterioso che ogni volta mi sorprendo a dover accettare. In alcuni casi i temi, le questioni affrontate devono essere espresse in italiano: non avrei mai potuto scrivere Disturbi di memoria in dialetto perché i discorsi dei protagonisti sono sottili, ragionati. L'italiano, nelle mie opere, diventa una lingua che controlla i personaggi e impedisce loro di esprimersi nella loro pienezza. Il napoletano, invece, è una lingua liberatoria. I miei personaggi parlano in italiano quando devono esprimere delle idee, esplorare la propria psicologia, entrare nel profondo di loro stessi, però, quando devono litigare, litigano in napoletano, perché il napoletano permette di tirar fuori in modo più diretto e liberatorio la propria interiorità.
Come sceneggiatore radiofonico ha avuto esperienza di riscrittura e riduzione di romanzi.
Quella è stata un'esperienza interessante che mi ha dato molto, ma oggi ridurre un romanzo per la scena non mi interessa più. L'ho fatto su commissione: ho realizzato Il marchese di Roccaverdina per il teatro di Palermo, ma mi piace molto di più inventare che riscrivere. Quando si parla di teatro moderno si parla spesso di riscrittura dei classici: io penso che non ci sia nessuna necessità di riscrivere, ad esempio, l'Edipo Re, visto che la versione originale è veramente bella. A limite si può presentare una situazione in cui si riconosce un ideale edipico, ma con la riscrittura, si rischia di far venir fuori dei personaggi tradotti in chiave moderna che diventano un'operazione facile, banale e fuorviante. La considero un "refugium peccatorum" per coloro che non avendo una fantasia particolarmente accesa, preferiscono sfruttare l'intelaiatura di opere già note, aggiungendoci qualche particolare. Ma è come copiare la Gioconda.
Le sue commedie hanno avuto moltissimi allestimenti all'estero dove i suoi testi sono stati tradotti, pubblicati e continuamente riproposti al pubblico. Tutto ciò condiziona la scelta della lingua?
No, assolutamente. Io scrivo pensando a ciò che voglio scrivere per il piacere di scrivere. In seguito mi domando se al pubblico può essere gradita una soluzione piuttosto che un'altra, ma prendo in considerazione un pubblico eterogeneo. Non potrei mai scrivere, pensando ad una traduzione, altrimenti, snaturerei la vena espressiva del momento. Ci sono scrittori moderni che concepiscono i romanzi già con l'occhio alla traduzione cinematografica, ma questo si avverte, ci si trova quasi di fronte a una sceneggiatura. Un'abbondanza di dialoghi in un romanzo nasconde la volontà di andare al di là del romanzo.
Del suo teatro si dice che porta in scena "inquietudini pinteriane analizzate all'ombra del Vesuvio". Quanto delle ossessioni, delle angosce e delle incertezze di Pinter riconosce nei suoi lavori?
Pinter è un autore che mi è molto caro, ma cerco di non farmi plagiare dalla sua scrittura che è complessa. Dietro ogni sua battuta quotidiana c'è un discorso più complesso, una tensione che si rivela chiaramente solo alla fine e che costituisce il sottotesto di Pinter. Nei suoi lavori sono più importanti le pause che le parole. Di Pinter ho letto tutto e l'ho ammirato a teatro numerose volte, sento di essergli molto vicino da un punto di vista psicologico, perché egli mette in scena delle situazioni che apparentemente sembrano pacifiche e che invece, evolvendo verso la minaccia e la crudeltà, si rivelano infernali. Ma io cerco di lavorare anche sull'anticlimax e, infatti, appena si raggiunge un punto di tensione mi diverto a rovesciarlo perché non mi piace il drammatico e il patetico.
Come definisce il suo rapporto con la scrittura?
Ultimamente ho partecipato ad alcuni Convegni e uno di questi si intitolava La gioia di scrivere per il teatro. Io non sono d'accordo sul titolo, perché anche se la scrittura è un momento di espressione e di emozione, io la vivo come una necessità biologica, una liberazione da un peso che mi porta semmai ad una gioia successiva. Il teatro non parte da un momento di euforia, può procurarlo alla fine. Io subisco il peso della scrittura, tuttavia, non posso farne a meno, perché sono molto competitivo con me stesso e cerco sempre di superare il punto in cui sono arrivato, cerco di spingermi oltre. Nel momento in cui mi trovo a dover rappresentare sulla scena questo retaggio, finisco sempre con il pensare al discorso di Alfredo, il figlio di Regina Madre, che esprime chiaramente il mio pensiero. Alfredo dice che le parole, nel passaggio da una riva all'altra, dal pensiero alla pagina, subiscono un attacco costituito da un temporale che lo costringe a tener le parole ben alte sul capo, per evitare che durante la traghettata si inzuppino di significati che non hanno. Da una parte, allora, c'è il pensiero con le sue fantasie e dall'altra una pagina bianca che deve riempire, perché il bianco, tutto quel bianco lo acceca. Questa è una costante della mia scrittura; all'inizio, infatti, ho l'impressione di avere nella testa delle idee che scottano, ma nel momento in cui scrivo ho paura che esse si attenuino fino a diventare banali, comuni. La paura dello scrittore, a mio avviso, è di avere nella mente idee che hanno un tale spessore da non riuscire a conservarlo nella stesura che diventa inevitabilmente inferiore a ciò che si vuol dire. La scrittura arranca e non riesce a tener dietro al pensiero che galoppa, questo è un disagio che avverto ogni volta che scrivo. Eppure la scrittura è una necessità biologica di rappresentare il proprio mondo interiore, i nodi che si vogliono sciogliere, ecco perché ho intitolato una mia lezione Il teatro è il mio doppio: il teatro costituisce il mezzo attraverso il quale esprimo me stesso e la mia vita.
In che modo si esprime la cultura e la tradizione napoletana nelle sue opere?
La tradizione napoletana mi appartiene come mi appartengono le altre tradizioni. Ho con essa un rapporto discontinuo, ma sempre piuttosto presente, perché la tradizione napoletana mi ha regalato la prima pietra per il mio teatro. Per me rappresenta la grammatica, la scuola elementare che è un periodo sconvolgente per la vita di un ragazzo che si appresta ad imparare. È il primo giorno di scuola quello che conta, è il primo rapporto con la penna, con l'inchiostro che caratterizza tutta la scrittura futura. Quando scrivo, però, mi rendo conto che non riesco a resistere alla tentazione di interpretare Napoli come una città in cui la linea dionisiaca è dominante. L'ubriacatura, l'uscire da sé stessi, trasferire all'esterno un mondo interiore, raggiungere un luogo che senza l'ebbrezza non si può raggiungere, questa è Napoli. Nei miei personaggi avverto la necessità di conquistare questo spazio lontano alla propria personalità che può essere la fantasia, il paradosso, uno spazio che presuppone un viaggio dalla propria interiorità verso un mondo diverso. Napoli non ha un'epidermide che la protegge e per questo è esposta a qualunque ferimento. È una città nuda, più nuda delle altre, e per questo tutto ciò che accade, anche l'episodio più insignificante, è portato ad indici estremi e parossistici.
Ne Il baciamano si indaga su un pezzo di storia che ha influito molto sulla società napoletana: la Rivoluzione Partenopea del 1799.
È un evento che ha segnato molto Napoli, perché ha dimostrato l'impossibilità di comporre la società in delle classi che potessero in qualche modo comunicare tra loro. La Rivoluzione del 1799 fu un evento tragico e sanguinario che, in un primo momento, sfruttò la rabbia bruta della plebe nell'intento di cacciar via il re Ferdinando I. Successivamente ci si rese conto che la plebe non aveva un'ideologia, ma era stata usata, per cui nello stesso modo in cui si era rivoltata nei confronti del re, poteva farlo verso i rappresentanti della Repubblica. La plebe non era il popolo: il popolo possiede un'idea dello Stato, ma la plebe è un sottoproletariato senza alcuna idea politica. In un secondo tempo, questa plebe si rivolta contro i giacobini per motivi religiosi: questi ultimi, infatti, volevano laicizzare il Regno di Napoli così come avevano fatto per la Francia in seguito alla Rivoluzione. I giacobini divennero dei mangiapreti. La Chiesa che aveva fatto una scelta avanzata, mettendosi dalla parte della Repubblica, cercò di conquistare alla causa libertaria la plebe, traducendo il vangelo in napoletano.
Il testo Il baciamano ruota intorno ad un fenomeno grottesco e incredibile: il cannibalismo. Che diventa metafora di che cosa?
Il tema del cannibalismo interviene ne Il baciamano in modo realistico, ma è presente in maniera metaforica anche negli altri lavori. Il cannibalismo è l'estremo punto del sentimento della possessività. Esiste un cannibalismo sociale che non si vede, ma che minaccia i rapporti familiari. Ne L'Aberrazione delle stelle fisse la protagonista Priscilla divora avidamente tutta la libertà del fratello che vorrebbe costruirsi una propria vita; in Regina Madre Alfredo, come a voler manifestare un sentimento di rivincita verso la moglie e la madre, racconta una storia in cui rivela di aver ucciso la moglie e di averla mangiata. I rapporti umani sono spesso minacciati dal sentimento della possessività che nel suo estremo giunge al delitto.