Toledo Suite al Ridotto del Teatro Mercadante
Ci sono spettacoli a teatro la cui natura interna presenta formidabili ostacoli alla stesura di una recensione, che come forma e genere potrebbe limitare l’esuberanza della creatività. Toledo Suite è il frutto di un’importante collaborazione tra Enzo Moscato e Pasquale Scialò, ma è anche l’esempio di come autonomie estetiche differenti, per vocazione e per fine, possano condividere uno spazio scenico in rapporto di parità e reciprocità.
Da un lato si prenda atto della presenza di una pagina di letteratura teatrale, che si dà al pubblico ancor prima della messa in scena, sommessamente adagiata sul banco informazioni nell’atrio del teatro. Sotto le mentite spoglie di “note allo spettacolo”, quelle che anticipano l’attesa, che preannunciano la visione, sempre a patto che il pubblico pagante si ricordi che esistono. Questa pagina resta lì in attesa di essere letta, perché con essa Moscato intende chiarire al pubblico quale sia l’eccezione, e quale la regola: la momentaneità del suo ruolo di chansonnier espressivamente libero dai dettami.
Una lettura troppo impegnativa da farsi nel breve tratto che va dalle scale dell’atrio, alla sala, alle poltrone, alle luci che si spengono. Se non altro ti predisponi a vedere qualcosa che di fatto poi non vedi.
Ho sempre pensato che avvicinarsi alla poetica di Moscato sia come addentrarsi in un’area di sabbie mobili grasse e opulente, in cui sono invischiate insieme lo psichico, la soggettività, il corpo e la voce di un singolo, troppo profonde per immergersi e poi risalire.
Alcune volte lo immagino più che come un drammaturgo, come un poeta, e “il poeta è sempre solo” come disse Alda Merini, quando sceglie il filo tematico della sua scrittura, lo fa non per condividere, ma per cercare consolazione alla sua anima.
Dove le parole sono malinconiche, talvolta insinuanti, talvolta inattese, eppur sempre governate dal senso del “nulla”, in rispetto al quale io non tento alcun approccio interpretativo, se non certa del fatto che questo “nulla”, è in realtà un vuoto fertilissimo e solenne, gravido, che costituisce un corpo unico ed inscindibile dell’autore stesso.
Ma la perdita è altro, ed è il senso lato delle cose, e le contempla tutte.
Bisogna comprendere cosa questo senso contempla nella visione di Moscato, e in questo spettacolo. Magari un passato che non esiste più, e che trasudava di vita nonostante le difficoltà del vivere. Un passato anch’esso gravido di immagini, di profumi, di presenze, di corpi, di consolazioni che si crede essere perduti per sempre. Allora sì, se perdere significa voler conservare la memoria.
Ma Toledo e i suoi quartieri è ancora lì visibile ai nostri occhi, viva, differente, ma inchiodata nella storia. Le puttane pure, suppongo, non dico di averle viste, ma sono lì anche loro, disuguali, e forse più libere, o solo in apparenza meno prigioniere.
Evanescenti sono i ricordi legati a questi luoghi e a queste immagini. E ciò che è stato almeno una volta, fa sì che non se ne possa più parlare in termini di utopia.
Se dovessi pensare di sintetizzare quello che è il senso per me della poetica di Moscato, lo farei giocando a manipolare le parole di una frase di Berger. Direi che dalla scrittura può partire un grido che lamenta una perdita, e quel grido può divenire preghiera, e accogliere con il lamento anche la speranza. Ma speranza e perdita si danno entrambe nella musica in modo diverso, insieme, storicamente attraverso il canto.
Cantare vuol dire tessere lodi alla vita per chiedere una resa incondizionata del passato, questa è la ragione per cui in Moscato il canto è forma “altra” della scrittura. Questa è la ragione per cui non potrà essere mai solo canto.
Le due estetiche che governano questo spettacolo si incontrano qui, in questo punto preciso. Perché mentre Moscato non chiede la resa di ciò che è andato, Scialò lo fa attraverso la musica senza alcuna volontà di “crudele spaesamento”.
Pertanto i testi delle canzoni in scena ci appaiono come profusioni, emanazioni, un braccio, una mano, una bocca, una parte di quel corpo che viene fuori da quelle sabbie mobili, animato da un efficace colorante vocale linguistico. E ci appare come la sorpresa più gradita, e come la speranza nella preghiera.
Dunque la canzone, ma la canzone appartiene alla musica, alla sua esecuzione pubblica. E la musica di Scialò vuole il suo spazio, lo chiede e lo pretende, talvolta, devo dire volutamente, oscurando tutto ciò che è contenuto in quella scatola che funge da palcoscenico.
La musica presenta ragioni altrettanto formidabili, e meno oppositive sul piano informale ai sensi di uno spettatore che non sta ad indagare più di tanto. Piuttosto, lui, il pubblico, ondeggia e si sofferma a fantasticare sulle immagini che queste fotografie sonore suscitano.
Le elaborazioni musicali date in questa performance, si collocano nell’apertura totale ad un discorso sulla etnicità della musica, ad una prospettiva di ricerca sulle sonorità preesistenti, operata con la stessa maestria dell’uomo che crea manufatti culturali, consapevole che essi rappresentano qualcosa per noi, per la nostra cultura. Quasi a voler individuare un modus mediterraneo napoletano rievocando tradizioni che non ci appartengono per via diretta, ma per prossimità nel sentire.
In questo caso il passato non si ostina in una visione nostalgica, e il maestro elabora dei collages inediti scavando con le mani nella profonda memoria musicale partenopea. Con esse la trattiene per non lasciarla andare.
Per meglio dire, ogni esistente musicale, il cosiddetto “sempreverde” della napoletanità, viene individualmente ripreso e vestito con nuove sonorità.
Il risultato? Riuscire ad espugnare l’originale con strumentazioni imprevedibili, con sorprese ritmiche e stupori armonici che ci hanno preso sotto la pelle e con la mente.
La musica è un ventre dove la memoria si impregna e si perde allo stesso tempo. Ad un certo punto non ricordo, se fosse in Scalinatella o in Cerasella ma giurerei di aver ascoltato un fado. O forse non in quel momento, tra una pausa e l’altra nel respiro di Anema e Core, mi sono convinta di aver udito il suono di una chitarra rebetika. Da qualche parte una bossanova mischiata a qualcosa d’altro.
Il senso lato della perdita, lo spaesamento territoriale e sensoriale, che sinceramente riconosco di aver provato dal vivo solo anni fa, durante l’ultimo concerto napoletano di De André, è una chiave di lettura della musica che funziona oggi. Quando è capace di accogliere e alimentare norme collettive implicite, conseguenza di un apprendimento sociale espresso a livello corporeo in base al modo di essere e alla storia personale di ciascuno di noi, seppur appartenenti a tradizioni diverse.
Per queste ragioni Toledo Suite è uno spettacolo che può essere recepito e ospitato in circuiti culturali diversi.
Questo essere in quanti luoghi all’interno di un unico ascolto. Questa Suite che è come una piccola antologia di ricordi che scatenano una valanga di memorie, che hanno una valenza collettiva e un valore individuale.
Cosa dire: come vuole il principio di Archimede due corpi immersi nello stesso fluido con misure e pesi differenti si muovono in rapporto di equilibrio e di reciproco rispetto. L’uno scende per nutrirsi in profondità, l’altro resta radente la superficie per respirare e contemplare la luce.
Tra musica e teatro, tra autonomie estetiche che si completano e lasciano a noi la possibilità di scegliere in quale direzione muovere i nostri occhi, e a che cosa aprire i nostri sensi.
Paola Guida
Scheda dello spettacolo
Recital tra musica e teatro
Chansonnier Enzo Moscato
Immagini sceniche Mimmo Paladino
Elaborazioni e direzione musicale Pasquale Scialò
Luci Cesare Accetta
Costumi Tata Barbalato
Testi e regia Enzo Moscato
Sede: Napoli, Sala Ridotto (17-27 febbraio 2011)